Rassegna trimestrale BRI, dicembre 2015 - briefing stampa
Gli articoli monografici rispecchiano le opinioni degli autori e non necessariamente il punto di vista della BRI. Si prega pertanto di attribuire agli autori, e non alla BRI, eventuali riferimenti a tali articoli.
Dichiarazioni on-the-record rilasciate da Claudio Borio, Capo del Dipartimento monetario ed economico, e Hyun Song Shin, Consigliere economico e Capo della Ricerca, il 4 dicembre 2015.
Claudio Borio
Sui mercati finanziari ha regnato la calma, una calma fragile.
Lo scorso trimestre avevamo lasciato i mercati in piena turbolenza. Poi all'improvviso, così come era venuta, la turbolenza se n'è andata ed è subentrata la calma. Dopo i turbinii di agosto e settembre, in ottobre i mercati si sono ripresi. I corsi azionari hanno registrato il rialzo mensile più vigoroso degli ultimi anni. I prezzi delle materie prime hanno ripreso inizialmente a salire. Le valute dei mercati emergenti si sono stabilizzate, parallelamente ai flussi di portafoglio. Gli spread creditizi si sono ristretti. Le volatilità sono diminuite. In tutta evidenza, la turbolenza era più simile a un breve temporale estivo che al tuono autunnale che preannuncia l'arrivo di un lungo inverno.
Con l'evolversi degli eventi la situazione non è cambiata molto. I mercati finanziari hanno fatto una breve pausa. E hanno aspettato. Hanno aspettato con il fiato sospeso quella che consideravano un'eventualità altamente probabile, ossia un rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve in dicembre. La probabilità di un rialzo entro fine anno desunta dai mercati, che era crollata addirittura al 30% in settembre, quando la Fed aveva deciso di non alzare i tassi, è tornata a salire avvicinandosi all'80% verso la fine di novembre. I motivi di questo cambiamento vanno ricercati nella comunicazione del Federal Open Market Committee, nonché nell'annuncio di dati sorprendentemente positivi sull'occupazione nei settori non agricoli il 6 novembre. In verità, nei giorni immediatamente successivi all'annuncio i mercati finanziari delle economie emergenti avevano subito un contraccolpo, non dissimile da quello osservato durante il cosiddetto "taper tantrum" del maggio 2013. Ma si sono subito ripresi. E mai si è avvertita la sensazione che stesse per scoppiare una nuova turbolenza.
Ciò nonostante, dietro la calma ostentata dai mercati si scorgevano segnali di disagio. Ancora una volta è stato evidente il contrasto perenne fra il ritmo frenetico dei mercati e quello al rallentatore delle forze economiche più profonde, quelle che contano davvero.
Le prospettive di breve periodo delle economie emergenti (EME) sono rimaste pressoché invariate nel periodo in esame. In generale, gli indicatori anticipatori dell'attività economica segnalavano debolezza. I paesi attanagliati da gravi recessioni, come il Brasile e la Russia, hanno continuato a patire difficoltà. In Cina l'attività economica ha dato ben pochi segni di miglioramento e le statistiche bancarie internazionali della BRI confermano le indicazioni preliminari di un rallentamento dei flussi di capitali nella parte precedente dell'anno. Con il trascorrere del tempo, inoltre, i prezzi delle materie prime, compresi petrolio, rame e minerali ferrosi, sono precipitati a nuovi minimi.
Nemmeno le prospettive di medio periodo sono cambiate - e come avrebbero potuto? Le vulnerabilità finanziarie nelle EME, in particolare, non sono venute meno. Lo stock di debito denominato in dollari, che dagli inizi del 2009 è quasi raddoppiato a più di $3 000 miliardi, non è diminuito. Anzi, in termini di moneta nazionale il suo valore è addirittura aumentato parallelamente all'apprezzamento del dollaro USA, andando a gravare sulle condizioni finanziarie e sui bilanci. E non è diminuito nemmeno l'ingente stock di debito interno, soprattutto delle imprese, ma in alcuni casi anche delle famiglie, cresciuto a dismisura dopo la crisi. Semmai qualcosa è cambiato, si tratta dei boom del credito e dei prezzi delle attività, che con la maturazione e la svolta dei cicli finanziari hanno perso slancio, benché a velocità diverse e partendo da situazioni diverse a seconda dei paesi.
Osservando più da vicino le attività a reddito fisso, si scorge una serie di anomalie rivelatrici del fatto che non tutto va per il meglio nei mercati. Sorprende ad esempio che, nonostante il più elevato rischio di credito che incorporano, negli Stati Uniti i tassi swap siano risultati persino inferiori ai corrispondenti tassi dei titoli del Tesoro. Anche tenendo conto dei costi di copertura dal rischio di cambio, coloro che desiderano prendere in prestito dollari si trovano da qualche tempo a dover pagare un premio - a dispetto di chi crede nella parità coperta dei tassi di interesse consacrata dai testi di economia. Attualmente, quindi, gli squilibri tra domanda e offerta in specifici segmenti di mercato non vengono eliminati mediante arbitraggio come di norma avviene. Le istituzioni finanziarie, per prime le banche, non stanno impiegando la propria capacità di bilancio come in passato.
È possibile che in qualche misura ciò rifletta il fatto che il prezzo sia della liquidità di provvista sia della liquidità di mercato era oltremodo basso prima della crisi. E non vogliamo che ciò si ripeta. Ma si ravvisa anche il sintomo di debolezze più profonde. È degno di nota che i rating della solidità intrinseca delle banche, al netto del sostegno ufficiale, siano ulteriormente peggiorati dal 2010 nelle principali economie avanzate. In molte giurisdizioni, inoltre, le azioni bancarie vengono ancora scambiate a sconto rispetto al valore nominale, un chiaro segnale di mancanza di fiducia e di scetticismo. Nell'area dell'euro, in particolare, i crediti deteriorati sono eccessivamente alti. Occorrerebbe procedere risolutamente nel risanamento dei bilanci.
Infine, sullo sfondo, i tassi di interesse hanno continuato a essere eccezionalmente bassi. Anche quando la Federal Reserve è parsa vicina al rialzo, i rendimenti dei titoli del Tesoro decennali statunitensi oscillavano intorno al 2,2% verso la fine di novembre, un segnale lampante della traiettoria insolitamente bassa attesa per il tasso ufficiale. Dopo i chiari indizi di accomodamento monetario da parte della BCE, inoltre, circa €2 000 miliardi (o un terzo del totale) di titoli sovrani dell'area dell'euro - un nuovo record - venivano scambiati a rendimenti negativi. Gli operatori di mercato hanno poi continuato a chiedersi se la Bank of Japan avrebbe allentato ulteriormente la politica monetaria. La prospettiva che si stava delineando era quella di una divergenza fra politiche monetarie, che rischiava di avere implicazioni significative per i tassi di cambio e l'adeguamento dei mercati. Al tempo stesso, i tassi di interesse correnti e attesi hanno proseguito giorno dopo giorno a mettere alla prova i confini dell'impensabile, e ciò malgrado il tono noncurante di buona parte degli osservatori. La familiarità ingenera compiacenza.
A fronte di condizioni così straordinarie, non sorprende che i mercati rimangano tanto sensibili a qualsiasi parola o azione delle banche centrali. Basti pensare allo scossone dei mercati che ha accompagnato ieri la decisione della BCE di allentare ulteriormente la politica monetaria, ma in misura inferiore a quella attesa dai mercati. Hyun tornerà su questo argomento tra breve.
In questa situazione, è difficile immaginare come la calma possa non essere fragile. Vi è una chiara tensione fra il comportamento dei mercati e le condizioni economiche di fondo. A un certo punto tale tensione dovrà risolversi. I mercati possono ostentare calma molto più a lungo di quanto pensiamo. Fino a quando, di colpo, non riusciranno più a farlo.
Hyun Song Shin
Vorrei fornire ulteriori indicazioni sul periodo esaminato in questa edizione della Rassegna trimestrale BRI.
La "fragile calma" nei mercati finanziari internazionali ha fatto seguito a un periodo piuttosto sconnesso e confuso per i flussi bancari e finanziari globali. I flussi finanziari internazionali hanno evidenziato dinamiche molto diverse a seconda delle regioni e delle valute, muovendosi al ritmo delle azioni effettive e previste delle banche centrali.
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Nel caso delle economie emergenti (EME), il credito bancario transfrontaliero è risultato positivo nel secondo trimestre, ma generalmente moderato. Le emissioni di titoli di debito nel terzo trimestre sono notevolmente rallentate, rispecchiando la concomitante turbolenza nei mercati.
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Nel caso delle economie avanzate, il credito bancario transfrontaliero ha registrato oscillazioni pronunciate, risultando generalmente sostenuto nel primo trimestre, ma debole nel secondo.
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Un esame più attento fa ritenere che le ampie fluttuazioni delle attività transfrontaliere siano dovute a quelle del credito in euro. Il credito transfrontaliero in questa moneta aveva segnato una vigorosa espansione nel primo trimestre, ma nel trimestre successivo si è nuovamente contratto in misura significativa (si veda il diagramma centrale del grafico 1 nel capitolo dedicato agli aspetti salienti delle statistiche BRI).
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Per capire quel che sta succedendo, dobbiamo inquadrare queste oscillazioni nel contesto più ampio dell'evoluzione delle politiche monetarie.
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Quando una valuta internazionale si deprezza, vi è la tendenza da parte dei debitori esteri a indebitarsi ulteriormente in quella valuta. Si tratta del cosiddetto "canale dell'assunzione di rischio" del deprezzamento valutario, un fenomeno ampiamente documentato per il dollaro USA.
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La novità è che l'euro sembra stare assumendo i connotati di valuta di finanziamento internazionale, proprio come il dollaro. Il credito bancario transfrontaliero nella moneta europea a favore di non residenti nell'area dell'euro evidenzia l'andamento tipico per cui tende ad aumentare quando l'euro si deprezza (si veda il grafico 3 dello stesso capitolo).
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Se l'indebitamento estero in euro è associato a posizioni corte speculative, un qualsiasi episodio di "short squeeze" potrebbe dare luogo a bruschi apprezzamenti dell'euro, simili a quello osservato ieri.
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L'indebitamento estero in euro contribuisce inoltre a far luce sulle anomalie di mercato che di recente si sono fatte più pronunciate. Come accennato da Claudio, i tassi di interesse impliciti nei prezzi dei cross-currency swap non sono in linea con quelli disponibili agli operatori di mercato.
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Una possibile fonte di queste anomalie è la domanda di copertura degli investitori a lungo termine nelle economie avanzate, che desiderano tutelare le proprie passività pensionistiche e assicurative dal rischio valutario. Se detengono un portafoglio diversificato di attività denominate in dollari o euro, ma le loro passività pensionistiche sono in yen o franchi svizzeri e non sono già state coperte, tali investitori potrebbero essere incentivati a mutuare dollari o euro per neutralizzare il rischio di cambio. Tale incentivo sarà ancora maggiore laddove le oscillazioni valutarie risultino molto pronunciate o laddove tali investitori si attendano un ulteriore deprezzamento del dollaro o dell'euro. In una situazione del genere, le politiche di allentamento quantitativo delle principali banche centrali, inducendo un deprezzamento della corrispondente moneta, accresceranno la domanda di copertura da parte degli investitori a lungo termine esteri.
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Si tratta dell'ennesima dimostrazione che i flussi finanziari internazionali risentono delle azioni effettive e previste delle banche centrali.
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Per concludere, vorrei soffermarmi sugli articoli pubblicati in questa edizione della Rassegna trimestrale BRI.
Il primo è uno studio sul debito denominato in dollari USA dei prenditori non bancari residenti al di fuori degli Stati Uniti, condotto da Robert McCauley, Patrick McGuire e Vladyslav Sushko.
Tale debito ha raggiunto nel secondo trimestre $9 800 miliardi, di cui $3 300 imputabili ai residenti delle EME. Per alcuni paesi, come la Cina e la Turchia, si tratta principalmente di prestiti bancari; per altri, come la Corea e il Messico, di emissioni obbligazionarie. Vi sono inoltre importanti differenze per quanto riguarda le modalità di erogazione del credito, che in alcuni casi transita per le banche nazionali e in altri fluisce direttamente ai prenditori non bancari.
Il secondo articolo, di Ingo Fender e Ulf Lewrick, è dedicato alla calibrazione dell'indice di leva finanziaria o leverage ratio di Basilea 3.
Si tratta del più recente di una serie di studi sull'impatto della regolamentazione condotti dagli esperti della BRI. Il metodo di base è semplice: gli autori esaminano i benefici dell'introduzione dell'indice di leva finanziaria, derivanti dalla riduzione della probabilità di crisi bancarie sistemiche. Confrontano poi tali benefici con i costi per l'economia reale in termini di un aumento potenziale dei margini di interesse delle banche. Tali costi si basano su ipotesi molto prudenti, nel senso che sono probabilmente sovrastimati rispetto ai risultati empirici di numerose ricerche. Gli autori riscontrano che anche utilizzando queste ipotesi molto prudenti i benefici del leverage ratio dovrebbero superare i costi, e ciò persino laddove l'indice venga calibrato su valori del 4-5%.
Il terzo articolo della Rassegna, frutto del lavoro di Dietrich Domanski, Leonardo Gambacorta e Cristina Picillo, tratta della compensazione centrale.
Il ricorso alla compensazione centrale per gli strumenti derivati standardizzati si è notevolmente diffuso negli ultimi anni. Tale sviluppo è positivo nella misura in cui riduce le esposizioni bilaterali e la complessità del sistema finanziario. Ma introduce rischi di altra natura. Gli autori ne evidenziano alcuni, mostrando ad esempio come la compensazione centrale modifichi i meccanismi di propagazione degli shock all'interno del sistema finanziario e influisca sulle dinamiche di deleveraging. Sono aspetti di cui le politiche si dovranno occupare.
Infine l'ultimo articolo, di Marlene Amstad e Frank Packer, è dedicato al tema dei rating creditizi sovrani.
Negli ultimi anni le agenzie di rating hanno cambiato le loro metodologie di valutazione. Come mostra lo studio, fattori quali il potenziale di crescita, i precedenti di default o l'adozione di un regime di cambi fluttuanti hanno assunto una maggiore importanza relativa. Tenendo conto di una serie fondamentale di variabili esplicative, gli autori non riscontrano evidenze che le grandi agenzie di rating attribuiscano punteggi sistematicamente inferiori alle EME, ma riconoscono le difficoltà di verificare questa ipotesi in maniera pienamente soddisfacente.